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Il 27 maggio 99, alle 7 del mattino, mia
figlia Nikka andava a scuola come tutti i giorni.
Aveva compiuto 15 anni il 19, la settimana
prima.
Ha attraversato la strada, nel centro del nostro
paese, sulle strisce pedonali; e lì è stata investita da un camion che,
inizialmente fermo davanti alle strisce, è partito improvvisamente, l’ha
investita, l’ha trascinata per diversi metri, l’ha uccisa in pochi
istanti.
Il conducente non ha mai riconosciuto le sue
evidenti responsabilità, ne ha cercato in nessun modo di mettersi in
contatto con noi; all’udienza preliminare chiede al Giudice, e non
ottiene, il patteggiamento ”a condizione” che non gli venga ritirata
quella patente di capacità alla guida in base alla quale ha ucciso Nikka;
in primo grado, dopo tre anni e un processo sbrigativo e sommario che ignora
letteralmente aspetti dell’incidente e testimonianze in grado di portare
all’aggravamento dell’imputazione, viene condannato a sei mesi con la
condizionale e al ritiro della patente per tre mesi; ha fatto ricorso in
appello ed in futuro magari ricorrerà alla Cassazione per arrivare alla
prescrizione e restare in sostanza impunito.
Nel frattempo, fidandomi di errati consigli dei
miei avvocati, ho ottenuto un risarcimento inadeguato che mi ha inoltre
impedito la costituzione di parte civile e quindi una efficace presenza nel
processo per far valere le mie ragioni, anzi le ragioni di Nikka.
Nikka, pur con tutti i dubbi, le paure e le
incertezze della sua giovane età, aveva la straordinaria, spontanea e
naturale capacità di sembrare preziosa e necessaria agli occhi di chi la
conoscesse; riuscire per me, mia moglie e sua sorella a compiacerla, a
renderci utili a lei, ad aiutarla in qualche modo, ci riempiva di
soddisfazione come se avessimo portato a termine chissà quale
impresa.
La ritenevamo qualcosa di pregiato e di
fragile, da difendere e proteggere con cura perché sembrava che da lei
dipendesse tutto.
Questa sensazione ci mancherà sempre.
Angelo D’Ingeo
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