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Doveva
essere un sabato qualunque quel 3 luglio 1999.
Io sono
partita la mattina per andare a lavorare, tu mi hai saluto scherzando,
accompagnandomi alla porta come ti piaceva fare. Non lo sapevamo che
erano gli ultimi sorrisi che ci saremmo scambiati.
“Vado a fare un giro in moto”, mi hai
detto, “torno nel primo pomeriggio, così poi andiamo a vedere quella
mostra”.
E quel
pomeriggio stavo annaffiando i gerani del nostro balcone quando è
squillato il telefono e una
voce di uomo mi ha detto che eri ricoverato in gravi condizioni
all’Ospedale di Treviso.
“No, mio
marito no” è stato quello che sono riuscita a dire, poi la corsa
disperata, tanti visi stravolti intorno a me; e ti ho visto con un tubo
in bocca per respirare, una macchina che teneva il tuo corpo in vita,
gli occhi chiusi, le occhiaie viola.
“Suo marito
ha ricevuto un colpo pazzesco in testa” mi ha detto il medico,
“pianga signora, pianga che le fa bene”.
Il tuo casco non è servito a niente, Andrea, quel ragazzo ha
centrato in pieno con la moto la tua testa e ti ha ucciso.
A distanza di
un anno la Procura non
aveva ancora deciso sul rinvio a giudizio e nessuno mi ha spiegato perché
io, tua moglie, sono stata avvisata dell’incidente dai Carabinieri con
5 ore di ritardo e perché, per un incidente mortale, i Carabinieri non
hanno sequestrato le moto rendendo così impossibile una ricostruzione
certa della dinamica dell’incidente, del punto d’impatto della tua
testa con quella moto: sono violenze psichiche che nessuno potrà mai
ripagare; poi, come spesso accade, nessuno ha visto.
Da quel
giorno d’inferno cerco di raggiungere, in nome tuo, la verità, ma mi
scontro con un sistema di giustizia che non è fatto per dare Giustizia
ai morti e ai loro superstiti. E in questo sistema ingiusto tu, come
tanti altri, vieni ucciso ancora una volta dall’inettitudine, dalla
leggerezza, dalla lentezza di chi in questa vita è rimasto.
Il
ricordo della tua voglia di
vivere, del tuo sorriso generoso, mi dà la forza di andare avanti, di
non impazzire, di proseguire fino in fondo anche se forse non arriverò
mai a sapere cosa è successo davvero quella mattina. Non mi arrenderò,
Andrea, eri tu a dirmi "non bisogna mai arrendersi".
Tu, che tante volte hai dimostrato nella tua breve vita un
profondo senso civico e la fede nella bontà degli altri uomini, sei
stato trattato quasi alla stregua di un cane arrotato sulla strada. Ma
mi consola pensare che il nostro è solo un discorso interrotto.
Luciana
Tazzer Marzemin *
*responsabile
dell’Associazione per la provincia di Belluno
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