TRENTINO
È la fine di settembre. Poco prima dell’una di notte Matteo Beltrami, .
CIMEGO. È la fine di settembre. Poco prima dell’una di notte Matteo Beltrami, non ancora diciassettenne di Cimego, dopo aver trascorso la serata con gli amici, decide di tornare a casa. Guida la Vespa, dietro a lui siede una sua amica. Dopo circa cento metri, sono tamponati dall’automobile condotta da Simone Marascalchi. I due ragazzi vanno a sbattere contro un’altra vettura e finiscono a terra. Matteo Beltrami muore.
Simone Marascalchi non si ferma, non presta soccorso e fugge. Più tardi si scopre che guidava in stato di ebbrezza. Il giovane viene condannato a 2 anni e 4 mesi.
---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Karaoke con “ Vasco”, dimenticando Matteo
Un mese fa ha investito e ucciso un diciassettenne. L’altra sera cantava in un bar
Il dj lo ha riconosciuto e ha sfumato la musica per cercare di zittirlo
CIMEGO. Alla giustizia ha pagato il conto. La solitudine del carcere, un processo che l’ha condannato. Ma con la sua coscienza il conto è probabilmente aperto. E il cammino per guardare in faccia le proprie responsabilità è ancora lungo. Dopo l’esperienza drammatica come quella vissuta - ha ucciso un ragazzo guidando ubriaco - e dopo la condanna, Simone ha certo diritto alla normalità. Ma risulta difficile da accettare quello svago - «in pubblico» - in un modo che stupisce. E che può offendere.
Qualche giorno fa, Simone se n’è andato, con amici, nell’unico bar di Cimego: lo «Smile». E lì - da protagonista tra ragazzi con i quali condivide forse troppa superficialità - si è messo a cantare. Si è cimentato - a nemmeno due mesi dalla tragedia di fine settembre - in un «karaoke».
«Il mondo che vorrei» - di Vasco - stava suonando il dee jay nel locale. E Vasco, in quella canzone, recita uno di quei suoi vangeli che fanno discepoli: «Non si può spingere sempre sull’acceleratore».
Un paradosso. Vasco incita alla moderazione. E un giovane - Simone Marascalchi - che dopo quel che gli è capitato dovrebbe inginocchiarsi proprio sull’altare della moderazione, della ricerca di maturità, canta Vasco. Senza nemmeno capirlo.
Simone canta e lascia di stucco quanti si sono spesi a cercare di capire la pena di una famiglia che perde un figlio diciassettenne sulla strada, ma anche la pena di una famiglia che si ritrova un figlio in carcere, condannato e forse «segnato» per una vita.
Invece no. Invece questa realtà è pugno nello stomaco. Mentre Simone Marascalchi cantava, a nessuno degli amici è venuta in mente una reazione. Fermarlo? Macchè. Rimproverarlo? Nemmeno. Risatine: nulla di più.
Ci è voluto lo sfogo di un uomo più maturo per non far passare sotto silenzio l’episodio. Per non archiviarlo sotto una delle tante voci che rendono difficile - spesso improbabile, a volte impossibile - il rapporto tra ragazzi e adulti. Michele, il dee jay che si diverte a far divertire nei locali del Chiese, si è ribellato a quell’atmosfera irreale. Si è sentito ferito.
Lui conosce Simone, la sua storia. Conosce la sofferenza della sua famiglia. Partecipa a quella, immane, della famiglia di Matteo, il giovane morto in quella notte segnata da alcol, guida e leggerezza.
«Guarda che io non sono un eroe. Nè un maestro - dice il trentunenne disc jokey - solo che non potevo sopportare che quel ragazzo cantasse. E che chi stava con lui lo considerasse un fatto normale».
Non ha fatto nulla di clamoroso il dee jay. Ha solo sfumato la musica. Ha abbandonato la consolle. S’è fumato una cicca fuori dal locale con il nervosismo di chi vorrebbe dare una lezione e non lo fa.
Eppure il dee jay Michele, anche lui di Cimego, una lezione l’ha data: a tutti. Non è riuscito a fare riflettere Simone Marascalchi e i suoi amici. Che hanno alzato i tacchi perfino stupiti.
Ma questo assurdo episodio non è stato ignorato. «Certo - dice Michele - senza organizzarci i convegni. Ma come me ci sono rimasti male in tanti. E nessuno riesce a darsi una spiegazione di come un ragazzo che ha ucciso un coetaneo o quasi, guidando ubriaco, scappando, pentendosi come ha fatto lui in una lettera che i genitori di Matteo Beltrami nemmeno hanno voluto leggere, possa svagarsi in quel modo. Così presto. Così superficialmente».
Michele, il dee jay, non ha abbassato la musica per creare un caso. Ha cercato di difendere prima di tutto se stesso da un’indifferenza che preoccupa. Che purtroppo non è indifferenza di un singolo ma che diventa indifferenza di gruppo.
Michele non ha risposte. Ha solo malinconia. Fors’anche rabbia. E commenta: «Spero che Simone capisca. Che sappia spiegarsi. E che nel lavoro ai servizi sociali impari che alla sua età, dopo la sua esperienza, al valore del rispetto per un morto e per il dolore dei vivi non si può rinunciare».
------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- Crepet: «Gesto nato dall’indifferenza sia del colpevole sia dei suoi amici»
«Oggi nella società ci sono episodi simili a quello di Cimego»
NICOLA FILIPPI
CIMEGO. Lo psichiatra Paolo Crepet non si sorprende della serata easy di Simone Marascalchi, il giovane di Cimego che ha travolto e ucciso con la sua auto Matteo Beltrami, un diciassettenne del posto, ferendo la sua giovane fidanzata. Responsabile del gesto è solo «l’indifferenza», la vergogna non esiste. A Marascalchi non è bastato un mese di carcere per farlo riflettere sul suo gesto (eppure, davanti al gip aveva detto: “Quando tutto questo sarà finito, non so nemmeno se riuscirò a tornare nel mio paese”, ndr), causato anche dall’eccesso di alcol (in corpo l’alcoltest aveva rilevato un tasso quattro volte il consentito, ndr).
Professor Crepet, perché un ragazzo, dopo quello che ha fatto, arriva a un simile comportamento?
È colpa dell’indifferenza. È insita nella nostra cultura e soprattutto in quella giovanile. Purtroppo è così. Possiamo scoprirlo oggi perché fa parte del nostro vivere. Guardi Pietro Maso, che dopo aver fatto tutto quello che ha fatto è andato a brindare con gli amici. I ragazzi di Perugia, innocenti o no: uno è andato a ballare, gli altri a fare shopping. In giro fatti di questo genere ce ne sono tanti. Tutti però non hanno a che vedere con una patologia mentale, ma con l’indifferenza». (*)
Non è un disturbo della personalità, quindi?
Non possiamo usare la psichiatria per fare un condono, chiamiamolo così. Ultimamente la magistratura è sempre molto clemente, ma io credo che questa sia una cultura terribile. Se la procedura penale in questo paese prevede che se ammazzi una persona con un’auto, in stato di ebbrezza, non è omicidio volontario ma colposo e ci aggiungono le attenuanti generiche, stai in galera un mese e poi puoi uscire e andare a divertirti. Mentre l’altra persona non c’è più. Chiaro che c’è un’enorme disparità, fra la vittima e il colpevole. Anche questa è cultura dell’indifferenza, perché quando la giustizia non compie il suo lavoro, che è quello di saper punire, e non perdonare: questo lo può fare un prete, in camera caritatis. Tutto ciò dovrebbe far capire a qualcuno che esiste un ruolo educativo, soprattutto quando si giudicano persone così giovani, non solo verso chi è reo confesso, ma soprattutto verso chi ascolta e guarda, che può ispirarsi in negativo o in positivo.
La famiglia e gli amici possono aiutare il ragazzo a capire il suo gesto?
Dipende. Se la famiglia diventa l’acerrimo accusatore sì. Se invece la prima cosa che fa è trovare una scusa “poverino di qua, poverino di là”, è chiaro che la famiglia fa il peggio che può fare. Così come gli amici, possono essere persone che influenzano positivamente il comportamento, che dicono “cosa hai fatto, cosa hai compiuto, vergogna, sei andato a cantare al karaoke”.
Al bar ci sono andati insieme, quando è salito sul palco non l’hanno fermato.
Non stento a credere che magari qualcuno dei suoi amici non ci trovi nulla di straordinario. Anzi credo che troverebbe questa nostra discussione moralista.
Questo spaventa...
Assolutamente, sono convinto che sia così... La prova provata è che uno o due dei ragazzi o dei suoi amici, presenti nel bar non l’hanno preso a sberle...
Però il disc jockey ha scelto di sfumare la musica, interrompendolo...
E il dj non è un amico... Negli amici invece c’è una certa corresponsabilità nell’indifferenza, perché in fin dei conti è morto un ragazzo come loro. Non mi pare che questi poi vadano a portare i fiori sulla tomba. Però, se io fossi il padre del ragazzo sarei furibondo. Perché è come aver ucciso un’altra volta ...