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20 anni di vergogna e una speranza - da Carlo_Mariano_sartoris il 27/01/2006 * 14:19 Alla cortese att.ne del Presidente della Repubblica Italiana Carlo Azeglio Ciampi Il mio nome è Carlo Mariano Sartoris e da venti anni sono condannato a scontare una pena che terminerà l'ultimo giorno della mia vita. Sono un ergastolano sanitario. Sono rimasto completamente paralizzato in un incidente stradale nel 1986. Da quel giorno, la mia vita di architetto e padre di famiglia si è trasformata in un incredibile percorso costellato di vicende difficilmente riassumibili in poche righe. Ho sempre calzato la mia invalidità con molta dignità, nessuna vergogna e molta disponibilità rispetto alle barriere mentali che sovente rendono più difficile una vita già molto complicata. Non Le scrivo per narrare di handicap, ma perché, in seguito a delle vicende giudiziarie tra il sottoscritto e la Assicurazione della controparte, da venti anni vivo nel rodimento di essere stato giudicato in modo palesemente depistato e altrettanto chiaramente errato. Mentre trascorrevo un anno e mezzo della mia vita in un ospedale francese, dove sono stato misteriosamente trasportato dall'aeroplano dell'allora Presidente Cossiga, aggrappato ai miei pochi resti tentando il massimo della mia riabilitazione, iniziava una pratica legale che ancora non si è conclusa. Qualsiasi legale al di fuori della vicenda, che si è soffermato nell'analizzare le carte che conservo ancora, mi ha confermato stupefatto delle incongruenze, che la mia traversia, per qualche misterioso fatto che tuttora ignoro, è stata probabilmente interpretata affinché la verità non venisse riconosciuta. Viaggiavo in motocicletta andando per la mia strada, un'auto è uscita da un piazzale che nemmeno era adibito a parcheggio, sbarrandomi la strada. Il resto è comprensibile. Mentre ero in ospedale iniziava la mia pratica dalla quale, in primo grado, venivo risarcito poiché mi era riconosciuta la ragione, ma dopo anni, in appello la sentenza mutava e mi veniva attribuita la responsabilità di una caduta a causa esclusivamente di una non identificata forma di imperizia, cosa assolutamente inesistente. Chiunque abbia mai calzato il sellino di una moto sa che il buttarsi per terra senza un buon motivo non è una pratica usuale. L'assicurazione mi richiedeva indietro il risarcimento, maggiorato allora di 300 milioni di Lire di interessi, denaro che mi serviva per impostare la mia nuova vita, poiché l'handicap è un lusso che non tutti si possono permettere. In quel momento ho scelto ed ho peccato, non ho restituito il denaro richiesto, non solo per meri motivi economici, ma anche perché ingiuriato e ucciso una seconda volta da un sistema giudiziario del quale mi sfuggì allora il ragionamento e tuttora mi sfugge. Il ricorso in Cassazione, seguendo il suo iter, convalidava la sentenza di secondo grado. Per me, che sempre sono vissuto del mio lavoro, con onestà e dedizione, è stato un momento terribile, forse più che l'incidente stesso. Un incidente può accadere per caso, certo per una distrazione o un errore, ma mai è premeditato e valutato prima di essere compiuto. Un errore giudiziario, seppur applicato ad un piccolo cittadino quale io sono, devasta una moralità, disintegra una vita già massacrata e la spietata macchina della giustizia non si arresta lì. Prosegue. Oggi vivo ospite di una anziana signora (80 anni, Cavaliere della Repubblica) che da cinque anni mi ha accolto nella sua casa, essendomi trovato completamente solo e senza un tetto dopo quindici anni di autosopravvivenza, dopo essermi speso centinaia di milioni per supplire alle carenze dell'assistenza domiciliare che spesso è solo un bel progetto stilato su una carta. Questa breve esposizione è per specificare che, così come la legge impone, essendomi sottratto al risarcimento che comunque non avrei potuto onorare in toto visti gli esorbitanti interessi, da venti anni sono debitore ad una potente assicurazione, che del mio caso pare averne fatto un motivo di principio. Anche potessi non mi è concesso intestarmi nulla, vivo con la spada di Damocle del mio non piegare la testa di fronte a quello che ritengo o un errore madornale o peggio, un diabolico imbroglio. Sono disposto a mostrare ogni carta in mio possesso a qualsiasi persona di imparziale sapienza per dimostrare che quanto scrivo non è frutto di un malessere di vivere o di una lamentela sterile. Ho un orgoglio che mi tiene in vita e da sempre ho cercato di essere un uomo giusto. Le scrivo Signor Presidente perché, in questo momento in cui si parla molto di amnistia, in questa Italia che vive di condoni, Le scrivo per chiedere una grazia. È vero, mi sono sottratto ad un risarcimento, l'ho fatto per vivere e non per speculare, non per imbrogliare o approfittare di una potente assicurazione, è vero, sono colpevole, ma solo di questo. Nessun giudice paga per i propri errori. Io sì. Le scrivo Signor Presidente perché sono un uomo moralmente distrutto, non solo fisicamente, e la cosa è quasi peggio. Ho un paio di sogni nel cassetto, uno di questi è vedere finalmente e semplicemente riconosciuta l'inesattezza della sentenza e basta, riappropriarmi della mia dignità dimostrando in un qualsiasi incontro, anche informale, con qualsiasi persona che ama la giustizia e può essere incuriosita da questa mia vicenda, quelli che furono i fatti reali, talmente semplici ed evidenti che ancora oggi mi tormentano e mi insospettiscono, frutto di nebulose motivazioni di una sentenza che mi ha condannato ad un comportamento del quale mi vergogno. Il secondo sogno è quello di poter tornare un uomo libero di esistere su un pur modesto conto corrente, e magari un giorno ricomperarmi una piccola casa che non ho più, se ci riuscirò con il mio duro lavoro, seppur paralizzato, e di vivere da uomo libero, dopo aver scontato venti anni di umilianti sotterfugi. Venti anni non si danno più neppure agli assassini. È vero, sono colpevole di non aver restituito 800 milioni di Lire che erano il prezzo della mia vita. Lo confesso e chiedo di essere graziato dai massimi dirigenti dell'INA Assitalia, con chiunque dei quali farei volentieri due chiacchiere "sul concetto di ragione", per far capire loro quanto costa ad un uomo, paralizzato o no, la forza di una "strana" sentenza, contro la quale, la "ragion non vale". Chiedere è lecito, io chiedo un gesto, un momento di attenzione, per una triste storia che è stata sfigurata nel suo volto della verità. Come piccolo peccato di orgoglio personale, segnalo che in questi lunghi anni di dolorosa paralisi, non mi sono ripiegato su me stesso. La mia vena lavorativa non si è spenta e oggi, pur viaggiando in carrozzina elettrica e scrivendo con una protesi in plastica, sono diventato un modesto, ma stimato scrittore e un richiesto testimone nelle scuole della mia regione Piemonte, per incontri con i giovani sul valore della vita e sull'importanza di una condotta di guida consapevole e matura, ad uno dei quali, su invito, ho affiancato il Presidente della Provincia di Cuneo On. Costa. È un modo per dare un senso all'essere ancora vivi e mettere a disposizione del sociale certe dure esperienze.
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